Il Regno – Attualità 12/2024

di Piergiorgio Grassi

Sono numerosi i motivi che hanno spinto a ripubblicare il breve saggio di Bonhoeffer Dieci anni dopo, ritrovato nascosto, con altri testi, sopra le travi dell’armatura della casa paterna a Berlin Charlottenburg, per sottrarlo alle indagini della GESTAPO (.. .). I destinatari erano il cognato Hans von Dohnanyi, l’allievo, poi biografo e amico Eberhardt Bethge e Hans Hoster. Il testo è da considerare l’autobiografia spirituale di un gruppo di persone che aveva scelto la resistenza aperta e risoluta contro il nazismo. Era il frutto delle riflessioni di amici che si interrogavano su come potessero restare saldi (…) quando tante certezze si erano dissolte e si era stati costretti a reinventare le categorie fondamentali della presenza credente, attuando contro-movimenti teorici e pratici. Per il Natale del 1942 Bonhoeffer aveva dato forma a questi pensieri condivisi per offrirli come dono (…). Ha scritto Italo Mancini che «i temi non vengono evocati e tanto meno dedotti per sequenza logica, ma sono ripresi da un precedente dibattito in cui ci si è trovati d’accordo, per chiarirli ancora e orientarli nel senso dell’atteggiamento resistente»[1].

Ciononostante si nota il linguaggio del teologo esperto e sullo sfondo si intravvedono i risultati delle ricerche di quegli anni (…). Per questo il saggio, scritto a dieci anni di distanza dalla presa violenta del potere da parte di Hitler, mantiene una sua intatta attualità ed è un monito a non capitolare di fronte ai reiterati tentativi di manipolazione politica che accompagnano da sempre la storia degli uomini. I brevi e intensi capitoli del saggio affrontano questioni discusse a lungo e cruciali per motivare un’esistenza teologica, in mezzo alle tempeste esistenziali e collettive. Tutte le nozioni e opzioni etiche messe in campo erano state sconfitte dall’assurdità del mondo, compresa quella dettata dal dovere: solo un’azione responsabile infatti avrebbe potuto toccare il male alla radice e superarlo. Ma la domanda più lancinante era quella che si interrogava su come e perché fosse venuto meno il coraggio civile per impedire tale scempio. La risposta di Bonhoeffer era di estrema franchezza. I tedeschi hanno dovuto imparare la necessità e la forza dell’obbedienza, il rispetto dell’autorità che assegna un compito da intendere come vocazione (Beruf). Senza poter prevedere che questa disposizione comportava il rischio di diventare il supporto di un potere satanico ed era il risultato di un’etica autoritaria del solo comandamento. Non avevano però imparato (ma era urgente farlo) la necessità dell’azione libera e responsabile che non esclude il successo (Erfolg) «eticamente rilevante, perché aderisce alla vita», al fluire della storia ed è condizione dello sviluppo della personalità. Un’etica meramente obbedienziale conduce alla stupidità (Dummheit) dei molti. Stupidità come effetto di una deliberata e prolungata manipolazione di massa, dell’influsso determinante dell’ambiente socioculturale e politico (…): la stupidità non è innata, congenita, ma viene acquisita sotto l’urto dell’ambiente.

Un grande dispiegamento di forza dall’esterno, sia politico sia religioso, riduce a stupidità un gran numero di persone che abdicano a ogni forma di resistenza e si lasciano guidare dai luoghi comuni, dalle frasi fatte, dalla ripetizione degli slogan, dal bombardamento di media che lanciavano, attraverso l’etere, false informazioni. Un’incessante mobilitazione ideologica; un male mascherato da bene, difficile da riconoscere e ancor più difficile da contrastare. Ecco perché «negli anni del Kirchenkampf – ha osservato Alberto Gallas – ciò è stato causa di molti drammi personali, di molte divisioni tra amici che sino allora si erano creduti vicini nelle opzioni di fondo, di rottura di rapporti di stima, di antiche solidarietà»[2].  Una condizione di minorità da cui ci si poteva emancipare solo attraverso una liberazione esterna (violenta) dalle potenze oppressive. Bonhoeffer aveva ben presente come l’ascesa al potere di Hitler fosse stata favorita da una pianificata strategia di conquista del consenso. Ben tre capitoli del Mein Kampf (1925-1926) erano dedicati allo studio e alla pratica propagandista attingendo a un vasto assortimento di iniziative, in parte già sperimentato da altri nei decenni precedenti l’avvento del nazifascismo (…). L’applicazione sistematica e coerente di principi e metodi collaudati era stata demandata al Ministero dell’educazione pubblica del Reich guidato da Joseph Goebbels, che diffuse il messaggio nazista attraverso le arti, la musica, il teatro, la radio, il cinema e la scuola. Ne era sorto un universo concentrazionario dove veniva continuamente ricordata la presenza del nemico straniero e dell’eversione ebraica. Contro di esso – argomentava Bonhoeffer e con lui i suoi amici – poteva resistere solo la persona la «cui vita non voleva essere altro che una risposta al problema posto da Dio e dalla sua chiamata»; che ha imparato la necessità dell’azione libera e responsabile «anche contro la missione e il compito assegnato»; che non disprezza gli uomini in preda alla stupidità, perché Dio stesso non ha disprezzato gli uomini, ma si è fatto uomo per amore degli uomini; che fa affidamento su una giustizia operante nella storia in grado di restaurare l’ordine, calpestato e che ha ben presente come sia difficile soffrire nel corpo e nello spirito: «Cristo ha sofferto nella libertà e nella solitudine, in disparte e nell’onta, nel suo corpo e nel suo spirito e da allora molti cristiani con lui»[3].

Eberhard Bethge, editore delle Lettere di Bonhoeffer, ha inserito giustamente Dieci anni dopo come Prologo alle Lettere dal carcere considerandolo necessaria apertura a una stagione in cui, pur incarcerato, Bonhoeffer ha saputo elaborare una prospettiva teologica che, appena conosciuta (…)»[4], ebbe una presa immediata su pensatori di tutte le confessioni cristiane. Narra Jürgen Moltmann che ne fu colpito «come da una bomba», perché affermava un’autentica mondanità della fede cristiana e quindi la necessaria fedeltà alla terra, in un mondo diventato adulto. Collegava a esso il tema forte del Dio sofferente, che solo così può aiutare. Aggiungeva Moltmann che chi legge le Lettere «prende parte a una teologia in divenire e dai suoi pensieri non conclusi viene stimolato a pensare in prima persona… Bonhoeffer non ha lasciato in eredità né una dottrina né una dogmatica, ma una teologia vissuta e in divenire»[5].

 

Piergiorgio Grassi*

 

* Il testo è tratto dall’Introduzione a firma di P. Grassi, che cura il volume. Ringraziamo il curatore e l’editore per la gentile concessione.

[1] I. Mancini, Bonhoeffer, Morcelliana, Brescia 19952, 253

[2] A.Galles «Chi resta saldo? Le riflessioni di Bonhoeffer sulla virtù della fortezza», in F. Ferrario (a cura di), «Vorrei imparare a credere», Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), Claudiana, Torino 1996, 112.

[3] D. Bonhoeffer, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di A Gallas, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 71.

[4] Con il titolo Winderstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichhnungen aus der Haft, Chr. Kaiser Verlag München, 1951. La prima edizione italiana, con il titolo Resistenza e resa, trad. it. di S. Bologna, fu pubblicata dall’editore Bompiani nel 1969 e portava una densa introduzione di I. Mancini, «Appunti per una lettura critica delle Lettere dal carcere», 5-51.

[5] J.Moltmann, «Dietrich Bonhoeffer e la Teologia. Un omaggio personale», in U. Perone, M. Saveriano ( a cura di) Dietrich Bonhoeffer. Eredità cristiana e modernità, Claudiana, Torino 2006, 15s.

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