di Domenico Segna
Il Regno – Attualità 12/2023
Anch’io «sono una formica che tenta le crepe dell’essere»: un verso del padre cappuccino riminese Agostino Venanzio Reali, poeta e biblista, che fa da sfondo al saggio di Marco Casadei tanto da indurre quest’ultimo a «catturare» quelle crepe per titolare il proprio lavoro. Un’indagine che ci si augura venga approfondita e metabolizzata nei luoghi istituzionali, a iniziare dalle facoltà teologiche.
Che cosa ha di tanto originale questo impegnativo eppure avvincente studio da parte del direttore dell’ISSR A. Marvelli delle diocesi di Rimini e San Marino-Montefeltro?
Forse l’intelligenza di saper coniugare questioni teologiche e prospettive filosofiche a «dis-chiusura». Tale metafora viene posta come un’autentica stella polare per entrare nel partire dalle Scritture, segnatamente riflettendo e facendosi, al tempo stesso, interrogare dal versetto 19,34 del Vangelo di Giovanni che, riferendosi al momento della crocifissione di Gesù, recita: «Ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua».
Un’interrogazione giovannea che l’autore dipana in tutto il suo scritto tenendo saldamente ferma la metafora di un binomio i cui termini sono costituiti da «soglia» e da “DIS-CHIUSURA”. Tale metafora viene posta come un’autentica stella polare per entrare nel dibattito attuale del ruolo che può, o forse dovrebbe svolgere il cristianesimo nel mondo contemporaneo attraversato da tensioni religiose, globalizzazioni, avvento di sovranismi di vario genere. Cristianesimo e contemporaneità hanno ruoli distinti eppure destinati inevitabilmente a conoscersi, a ospitarsi a vicenda, a ri-scoprirsi.
In questa vicendevole ospitalità sono presenti due filosofi contemporanei: Jean-Luc Nancy e Giorgio Agamben, il primo relativamente alla figura della «soglia», il secondo a quella della «dis-chiusura». Due maître à penser messi in dialogo con il quarto Vangelo, facendo così scoprire tutte le intrinseche potenzialità filosofiche del Secondo Testamento. Scrive Casadei nella sua densa Introduzione generale: «A ben guardare, il fuori-uscire – come sangue e acqua (cf. Gv 19,34) – non è, in effetti, tanto della figura, quanto piuttosto della stessa realtà, nel differire da sé» (33).
In questo passaggio vi è tutta la distanza che l’autore prende nei confronti di coloro che hanno inteso il cristianesimo come una solida barriera, uno sistema tetragono per proporre di esso una declinazione come un fuori-uscire da sé inteso come un ciò che accadrà, dunque come adventura al cui centro è posta la figura della differenza che implica, a sua volta, l’alterità e la succitata ospitalità.
Figura della differenza che è lucidamente consapevole della posta in gioco in atto che tutti noi stiamo vivendo in maniera più o meno consapevole. Infatti, vi è l’impossibilità comune a tutti noi di divenire qualcosa di perfetto: viviamo la fragilità, la frammentazione i cui tasselli danno la figura di un mosaico di esperienze del tutto nuove in quanto effetto di un’apertura.
Il fuori-uscire del Nuovo Testamento significa perciò che esso non è mai con-chiuso in sé: non a caso l’apostolo delle genti, nella Lettera ai Colossesi, scrive di un aggiungere alle ferite di Cristo ciò che non c’è nel corpo del crocifisso; c’è dunque nella dis-chiusura un evidente coinvolgimento di tutti noi.
Dal suo canto, con «soglia» si deve intendere la «soglia ospitale», nella quale c’è una dimensione che si sottrae a qualsiasi definizione tesa a inserirci in realtà scontate. La soglia, quindi, diventa una specifica declinazione della medesima Dis-chiusura e il saggio si presenta necessariamente come una concatenazione di mosaici, di osservazioni, spesso del tutto inedite nella loro specifica originalità esegetica, opponendosi a qualsiasi idea di essere l’ennesimo manuale da adottare, bensì invito ontologico sul mondo che proviene direttamente dal corpo aperto del Crocifisso.
Al riguardo, basti pensare alla visione del cielo lacerato di Giacobbe nella Genesi, a cui fa da contraltare la tragica bellezza convulsa del corpo squarciato di Gesù.
Proprio in quanto testo inusuale nel panorama dell’attuale elaborazione teologica, Marco Casadei mostra come le Scritture esondino per conto loro e ciò non deve spaventare il dato istituzionale. Esse, infatti, non si lasciano catturare o addomesticare, essendo frutto di esperienze vive e vivificanti, che nel loro insieme costituiscono un’eccedenza che libera l’esercizio teologico privo finalmente dei perimetri asfissianti imposti dagli argini di paradigmi ormai decisamente logori.
Se, dunque, le Scritture non si fanno ingabbiare, perché allora non prenderle come interrogazione senza fine a cui si risponde in un continuo fuoriuscire? È questa, in estrema sintesi, l’operazione compiuta da Casadei, il quale ha coagulato un lavoro di scavo durato anni e che, probabilmente, ancora non ha concluso.