Il Regno – Attualità 8/2023

L’AMORE, UNICA  BELLEZZA. IL DIO CRISTIANO RIVOLUZIONA L’ARMONIA

Capita raramente che nello stesso libro s’intreccino le vicende  e i ricordi personali  con la critica letteraria  e artistica,  la teologia con la filosofia, la Bibbia con la storia civile: e il tutto con un ‘accuratezza, una documentazione  e una  scorrevolezza eccezionali. Leggendo questo Trittico delle cose ultime dell’ architetto Giorgio Gualdrini, ho pensato più volte al genere letterario  dello Zibaldone, genere  che, a dispetto del senso peggiorativo assunto dal termine, indica  leopardianamente una raccolta  densa di pensieri fondati, suggestivi e stimolanti;  oggi si direbbe un brainstorming. Questo volume attiva il cervello e il cuore, emoziona e commuove, fa riflettere e ragionare. Lo si può leggere anche come una raccolta  di “trattarelli” di nuovo in senso totalmente positivo: ciascun capitolo infatti tratta in maniera monografica un argomento,  per cui il lettore interessato a un tema specifico lo può leggere anche come se fosse un volumetto a sé stante. La lettura integrale tuttavia, benché impegnativa, ripaga abbondantemente l’impegno; il corredo iconografico, che comprende anche i ritratti e le fotografie di molti degli autori menzionati, rende ancora più appassionante l’opera. Ciascun lettore, come sappiamo bene dall’ermeneutica filosofica antica e moderna, mette anche sé stesso nel testo che legge. L’autore, certamente, ne è il padre; ma poi il testo è un figlio che incontra tanti amici, i quali ne attivano significati e intenzioni che sfuggono allo stesso padre. L’ intentio auctoris rimane un punto di riferimento imprescindibile per l’interpretazione del testo; il quale tuttavia s’apre ad altri sensi, che vengono estratti via via dai lettori. Spero così che l’architetto Gualdrini mi perdoni, se propongo l’individuazione di un fil rouge, all’interno della sua straordinaria opera, senza averne verificato con lui la plausibilità. Si tratta della relazione tra bellezza e sofferenza, che mi sembrano le due grandezze, anzi direi i due misteri principali trattati nel volume. Due misteri o uno solo? Non anticipiamo la conclusione, che il lettore scoprirà da solo leggendo il libro.

 

QUALE BELLEZZA SALVERÀ  IL MONDO?

Da parte mia, vorrei unicamente offrire uno spunto, a partire da un famosissimo passaggio di Dostoevskji, autore amatissimo anche dall’architetto Gualdrini e più volte citato nel suo libro. Si tratta della domanda sulla bellezza salvifica, posta e ripetuta con sarcasmo dal giovane IPPOLIT, agnostico e malato di tisi, al principe Myškin, che lo aveva accolto in casa sua e assistito, in quel magnifico romanzo che è L’idiota: “È vero, principe, che voi diceste un giorno che il mondo lo salverà la bellezza? Signori – gridò forte a tutti – il principe afferma che il mondo sarà salvato dalla bellezza. E io affermo che questi giocosi pensieri gli vengono in mente perché è innamorato. Signori, il principe è innamorato; poco fa, appena è entrato, me ne sono convinto. Non arrossite, principe, se no mi farete pena. Quale bellezza salverà il mondo? Me l’ha riferito Kolja… Voi siete un cristiano zelante? Kolja dice che vi qualificate cristiano”. Il principe lo considerava attentamente e non gli rispose. Il grande scrittore russo era attratto dalla bellezza; ma nessuno meglio di lui ha descritto le zone più brutte e tenebrose del cuore umano, come dimostrano i suoi Racconti del sottosuolo e l’impressionante romanzo Delitto e castigo. Su questo brano sono state scritte molte pagine e sono state offerte diverse interpretazioni. Per inquadrarlo nel modo giusto, e cercare di comprendere «quale bellezza salverà il mondo», è utile tenere presente che per Dostoevskij il principe è un uomo «assolutamente buono» (Leone Ginzburg), in cui non c’è traccia di egoismo, di superbia o di peccato. Si potrebbe forse dire, ed è stato detto, che Myškin per lo scrittore è Gesù che si ripresenta dopo oltre 18 secoli. Quale bellezza, allora, salverà il mondo? Nell’ambiente filosofico antico, greco e romano, la bellezza era essenzialmente armonia, cioè ordine delle parti. Mentre nel mondo mitologico non era tematizzata l’idea della bellezza – nella mitologia prevaleva l’istinto, il disordine – in quello filosofico venne molto apprezzata e approfondita. Per usare i termini di Nietzsche, il dionisiaco non apprezza la bellezza come invece fa l’apollineo. La bellezza dei filosofi è prima di tutto un ordine esteriore, che poi verrà chiamato estetico, presente nei corpi grandi o piccoli, come l’uomo e il cosmo, unito a un ordine interiore o etico, presente nella mente e nello spirito. I due maggiori filosofi greci, Platone e Aristotele, presentano da due differenti punti di vista questa idea «armoniosa» del bello. Platone ritiene che le cose visibili siano belle nella misura in cui imitano, sempre in maniera imperfetta, le idee celesti; e viceversa, quindi, nella bellezza delle cose l’uomo trova il punto di partenza per il «ricordo» e la contemplazione delle sostanze ideali (cf. Fedro 251a). Aristotele propone d’individuare la bellezza nella proporzione: il bello è per lui ordine, grandezza adatta a essere abbracciata da un solo colpo d’occhio (cf. Poetica 1450b-1451a). E lo stesso Aristotele impostava la sua etica sull’idea del «giusto mezzo» (mesotes), dell’equilibrio e armonia tra i due estremi da evitare (cf. Etica Nicomachea 1106a-b).

 

LA BELLEZZA COME ARMONIA

Cicerone, che è latino ma spesso pensa alla maniera greca, interpreta molto bene i due livelli del bello, quello estetico e quello etico, quando scrive: «Come nel corpo esiste un’armonia di fattezze ben proporzionate, congiunta con un bel colorito, che si chiama bellezza, così per l’anima l’uniformità e la coerenza delle opinioni e dei giudizi, congiunta a una certa fermezza e immutabilità, che è conseguenza della virtù, contiene l’essenza stessa della virtù, si chiama bellezza» (Tusculanae disputationes IV, 13,31). La bellezza/pulchritudo per Cicerone è il contrario della frantumazione, della dispersione: la bellezza interiore, in particolare, è unità delle funzioni dell’animo – intelletto, volontà, affetti – che si manifesta nell’armonia che l’uomo sperimenta dentro di sé. La bellezza intesa come armonia ha poi avuto, nel mondo antico, diverse espressioni, le più note delle quali sono la musica, la matematica e l’arte figurativa. Sembrano tre discipline molto diverse tra di loro, ma in realtà anticamente erano molto unite. Se qualcuno ha letto – o tentato di leggere – il trattato De musica di sant’Agostino, si sarà imbattuto in un inaffrontabile testo d’aritmetica, quasi interamente dedicato a stabilire le proporzioni numeri che tra i suoni. Del resto le tre espressioni – musica, matematica e arte figurativa – erano legate al canone detto «sezione aurea» o  «canone di bellezza», la proporzione numerica che dava la costante di 1,618 come numero che stabiliva il rapporto tra le parti. Già i babilonesi e gli egiziani utilizzavano questo rapporto nella pittura e nell’architettura e i greci lo utilizzarono nella geometria. Nel Rinascimento, poi, divenne un canone diffuso nella pittura: pensiamo a Leonardo Da Vinci, che lo applica tra l’altro a due famosissime opere: il volto della Gioconda e l’uomo di Vitruvio. Al di sotto di queste armonie c’è un presupposto derivante dalla filosofia: la realtà è ordinata, è armonia, è logos. Dopo il primo ingresso del logos nel pensiero occidentale, che – con Senofane, Eraclito, Parmenide ed Empedocle – assunse una funzione critica nei confronti della mitologia (mythos), si verificò un secondo e più massiccio ingresso del logos con Socrate, Platone e Aristotele, il cui pensiero porta a compimento la «svolta antropologica» già avviata due secoli prima. Anche in questo caso, tuttavia, più che soppiantare il mythos, il logos lo interpreta e lo riconduce alle strutture antropologiche fondamentali: il Dio organizzatore del cosmo ha ormai poco in comune con lo Zeus capriccioso descritto dai poeti. Per i filosofi greci il logos è l’ordine interno impresso da Dio al cosmo – kosmos, appunto, cioè ordine e non chaos, disordine – e l’uomo coglie la bellezza quando coglie questa armonia interna al cosmo; a essa corrisponde l’armonia dell’animo, l’ordine etico. Perciò i greci hanno coniato una parola unica per dire il concetto di bellezza e bontà, cioè kalekagathìa: se qualcosa è bello, per loro, è anche buono e viceversa. Non si può dare una persona o una cosa bella e cattiva o buona e brutta: l’ordine interiore corrisponde  a quello esteriore; l’armonia deve essere integrale, nel corpo e nell’anima.

 

IL PASTORE «BELLO»

Procedendo ancora per assaggi, ricordo che anche per gli ebrei, come per i greci, bellezza e bontà procedono assieme. La parola ebraica tob, che sigilla le giornate della creazione ed esprime la soddisfazione di Dio per le sue opere (cf. Gen 1-2), indica sia il buono sia il bello; infatti viene tradotta dai Settanta sia con kalos che con agathos. Questa parola significa che la creazione è bella fuori e dentro, armoniosa, ordinata. La creazione è buona perché risponde a un ordine: proprio questo esprime lo schema dei 6 giorni più uno, molto diffuso nell’antichità orientale; Dio non ha creato il mondo in modo caotico e casuale, ma secondo una scala di valori che culmina nell’uomo e nella donna, anzi più in alto ancora: nel riposo di Dio. Il Vangelo, però, presenta una novità a proposito della bellezza. Basta ricordare il passaggio nel quale Gesù si autodefinisce «bello»: il brano del buon Pastore (cf. Gv 10): «Io sono il pastore, quello bello (kalos)». In italiano la traduzione è «buon» pastore, perché, come accennavo, il termine greco – come nell’epoca classica – significava sia buono sia bello, o meglio buono e bello insieme. Ma qui l’evangelista utilizza non agathos bensì proprio kalos, volendo mettere in luce l’armonia della figura di Gesù: si tratta però di un’armonia diversa da quella greco-romana. In che senso infatti Gesù è «il bel pastore»? Non abbiamo alcun indizio sul suo aspetto fisico e quindi non sappiamo se fosse armonioso e «vitruviano». Abbiamo invece un chiaro indizio sul senso che Gesù stesso dà alla propria bellezza: un senso inatteso e spiazzante, perché consiste nel fatto che «il bel Pastore offre la vita per le  pecore» (Gv 10,11; cf. 10,15.17s). È dunque il pastore bello quando sfida i lupi, corre il rischio d’essere sbranato, viene sfigurato. Il paradosso cristiano raggiunge il suo culmine; mentre Isaia, immaginando le sofferenze del servo di Dio, affermava: «Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi» (Is 53,2), Gesù – che compie in sé stesso le sorti del servo di Dio – si dichiara bello proprio nel momento in cui soffre e muore, nel momento in cui fa una brutta fine.

Che cos’è che lo rende bello in questa sorte, che noi giustamente definiremmo brutta? La risposta è una sola: l’amore che lo porta a offrirsi. Gesù è davvero «bello» quando arriva al massimo dell’amore, anche se il suo volto diventa «brutto» e ricoperto di sangue. Perché è l’amore che lo rende bello; è l’amore che rende belli. La bellezza-bontà evangelica, la kalekagathia che si ricava dalle Scritture neotestamentarie,  è l’agape, l’amore inteso come dono di sé. Il crocifisso è quindi il «canone di bellezza» dei cristiani. Non il corpo perfettamente proporzionato nella sua armonia esteriore, ma il corpo perfettamente offerto nella sua armonia interiore. Nemmeno solamente l’armonia delle facoltà dell’anima con le parti del corpo, ma il dono di tutto sé stessi, anima e corpo, a Dio e ai fratelli. Non l’uomo di Vitruvio, in altre parole, ma l’uomo del Golgota è il paradigma di riferimento della bellezza cristiana: il crocifisso, la cui morte è già rischiarata dall’alba della risurrezione. La tradizione greca vedeva il buono e il bello convergere anche con il vero. Buono, bello e vero sono in un certo senso la stessa realtà per i greci, considerata da tre punti di vista: etico, estetico e intellettuale. Questa idea, nei Vangeli, si riflette su Gesù. Lui stesso, come abbiamo visto, si definisce «bello».

 

DAL DIO AUTARCHICO AL DONO DI SÉ

Ma di fronte alla domanda dell’uomo ricco, che si rivolge a lui con l’appellativo «maestro buono», Gesù risponde: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, tranne uno solo, cioè Dio» (Mc 10,18). Il senso di questa risposta non è di escludere che lui è buono, ma d’insinuare l’idea che se quell’uomo lo ha chiamato «buono», dicendo il vero, in qualche modo lo ha collegato a Dio, al quale solo appartiene la bontà. Ma anche la terza idea, quella del vero, è collegata a Gesù nei Vangeli. Pilato chiede a Gesù, che gli si presenta davanti come imputato: «Che cos’è la verità?» (Gv 18,38). A questa domanda Gesù non risponde, perché la risposta Pilato l’aveva di fronte: era la sua stessa persona. Il silenzio di Gesù misura tutta la distanza tra la ricerca intellettuale e teorica dell’uomo e la risposta incarnata e pratica di Dio. Dunque anche nei Vangeli, come nel mondo greco, buono, bello e vero convergono: e convergono ormai in Cristo. Ma gli uomini sembrano non rendersene conto: è il Signore che deve dire di sé stesso d’essere bello, che deve insinuare d’essere buono e che, tacendo, fa capire all’uomo in ricerca di essere il vero in persona.

Collegando la bellezza con l’offerta di sé, con il sacrificio, i cristiani non negano affatto il logos greco: affermano anzi che la realtà è ordinata e prende significato da Cristo, logos nel quale Dio ha creato il mondo (cf. Gv 1,1-3); però danno un nome più concreto a questa armonia, chiamandola agape, dono di sé. Dio stesso è chiamato «amore», agape (cf. 1Gv 4,8.16), proprio perché è dono. Il dio greco è armonia in sé, mentre il Dio cristiano è dono di sé; il dio greco è compreso da sé stesso, autarchico, mentre il Dio cristiano esce da sé stesso, si offre all’uomo. La bellezza, per i cristiani, non è una qualità racchiusa nell’oggetto, una qualità semplicemente da ammirare; è invece una bellezza che esce da sé stessa, una bellezza da accogliere. «Quale bellezza salverà il mondo?». Alla domanda d’Ippolit, come abbiamo visto, il principe Myškin non risponde: come Gesù non risponde a Pilato circa la domanda sulla verità. Anche nella scena di Dostoevskij, come in quella giovannea, stanno l’uno di fronte all’altro un corpo fragile e un corpo efficiente: Ippolit è morente, trapassato dalla malattia, quasi esanime; Myškin è in buona salute. Nel Vangelo di Giovanni, in realtà, non si sa chi tra Gesù e Pilato sia fragile e chi sia efficiente. L’evangelista gioca sul paradosso: apparentemente è Gesù tra i due quello fragile, perché è nelle mani di Pilato; infatti il procuratore lo ha ricevuto «in consegna» dai giudei e dai sommi sacerdoti (cf. Gv 18,35) e così Gesù è in balìa di Pilato, tanto che dopo il dialogo interrotto lo farà flagellare (cf. Gv 19,1). Ma in realtà Gesù gli tiene testa, anzi afferma davanti al funzionario romano la sua sovranità: «Io sono re» (Gv 18,37), con una dignità e una solennità che ne fanno il vero regista della scena. Come Gesù davanti a Pilato, dicevamo, anche Myškin davanti a Ippolittace. Perché la risposta, in entrambi i casi, è lì in carne e ossa, è lì di fronte a chi pone la domanda: Myškin ha già risposto a Ippolit con il suo amore, avendolo accolto in casa sua e avendolo curato; non ha bisogno di ragionare sulla bellezza, perché la sua opera dice che cos’è la bellezza: è donarsi.

 

AMORE A SENSO UNICO.

L’unico senso è amare Cristo non ha bisogno di ragionare sulla verità, perché la sua persona dice che cos’è la verità: è donarsi. Ecco quale bellezza salverà il mondo, per Dostoevskji e per la fede cristiana: l’amore, il dono di sé. La scena del romanzo fa seguire al silenzio del principe Myškin la protesta di Ippolit: «“Non mi rispondete? Credete forse che io vi voglia un gran bene?” soggiunse improvvisamente Ippolit come di scatto. “No, non lo credo. So che non mi volete bene”». Il principe Myškin-Cristo ama anche quando non è amato. Ama anche quando l’uomo, da lui beneficato, lo sbeffeggia pubblicamente. La bellezza che salverà il mondo è questa: l’amore a senso unico, l’amore che non si fa condizionare dal merito antecedente o dalla risposta. L’amore è davvero l’unica grande «bellezza» in grado di salvare il mondo, di dargli respiro ed energia. Ce ne rendiamo conto anche nella vita quotidiana: quando manca l’amore, la realtà diventa davvero brutta, perché si feriscono le relazioni tra di noi, si deteriora il rapporto che ciascuno di noi ha con sé stesso e si rovina anche il creato. Il mondo è già «bello» perché c’è in esso una logica, un’armonia; ma diventa molto più «bello» se vi si innesta l’agape, l’offerta, il dono di sé, la gratuità. Il fascino drammatico della Crocifissione di Grünewald a Colmar, insieme al Cristo nella tomba di Hans Holbein a Basilea e alla Madonna Sistina di Raffaello a Dresda, magistralmente scandagliati dall’autore di questo libro, in compagnia di centinaia di altre opere menzionate e inquadrate, spesso con poche incisive parole, rende l’opera dell’architetto Gualdrini un «poema della bellezza sofferente». Le scarne parole con le quali ho provato a tratteggiarne il fil rouge desiderano solamente rappresentare  un assaggio per il lettore, che seguirà l’autore nell’indagine, ben più profonda, del cuore umano.

Si troverà così di fronte alla bellezza tragica e sublime dell’arte cristiana di tutti i tempi – illuminanti, tra le altre, le pagine sulla rappresentazione della croce e del crocifisso in Occidente e quelle dedicate all’icona orientale – e potrà entrare in questo mistero, tanto difficile da comprendere, della relazione tra bellezza e sofferenza.

Difficile, dicevo, perché è la cifra del mistero stesso del cuore umano, capace di commuoversi per un fiore o per un volto e d’ordinare ed eseguire freddamente la distruzione dei suoi simili, come ad Auschwitz, come a Dresda, come… in Ucraina.

Sì, la bellezza potrà salvare il mondo, a patto che recuperi dal mondo antico, greco-romano-ebraico-cristiano, l’armonia del cuore, quell’amore come dolore offerto, che può iniettare nelle vene della storia, ragionevolmente, lo stile del dono, il contrario della pazzia dello sfruttamento e della guerra. Solo così la bellezza salverà il mondo, e l’umanità preparerà «le cose ultime», i biblici «cieli nuovi e terra nuova»; diversamente, la bruttezza condannerà il mondo e costringerà Dio stesso a rifare tutto dal nulla, come in un immenso ground zero.

 

Erio Castellucci *[1]

 

 

 

 

 

[1]. Il testo a firma di Erio Castellucci – teologo e saggista, arcivescovo di Modena, abate di Nonantola e vescovo di Carpi nonché vicepresidente della Conferenza episcopale italiana – e con titoli redazionali, costituisce la Prefazione al volume di G. Gualdrini, Trittico delle cose ultime. Grünewald, Holbein, Raffaello (Pazzini editore, Rimini 2023). Il volume contiene anche una Postfazione di Piero Stefani e Note a margine di Gabriella Caramore e Maurizio Ciampa. Ringraziamo l’editore per la gentile concessione.

 

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