Lucas Cranach, Il Vecchio,
“Lasciate che i bambini vengono a me”, 1538, olio su tavola.
Amburgo, Hamburger Kunsthalle (Bridgeman)
NEL NOME DEI BAMBINI
I nuovi beati: da Bartleby a Dostoevskij
sono tante le figure che ampliano l’elenco del Discorso della montagna.
Testo di Alessandro Zaccuri
Rivista: Luoghi dell’infinito (3 Marzo 2024)
Una delle più belle descrizioni dello stato di beatitudine è offerta dal Tao-tê-ching, il testo del VI-V secolo a. C. che costituisce uno dei cardini della sapienza cinese. «La pienezza di colui che è impregnato dalla Virtù è simile a quella di un lattante – si legge -; Gli insetti velenosi non lo pungono, gli animali selvaggi non lo graffiano, i rapaci non lo ghermiscono». E un linguaggio che richiama i Salmi, in particolare il 131, dove ritroviamo l’immagine del «bimbo svezzato in braccio a sua madre». Siamo, insomma, nel territorio dell’inazione, concetto fìlosofico e spirituale sul quale si è soffermato anche il filosofo contemporaneo di origine coreana Byung-chul Han (il suo Vita contemplativa, o dell’inazione, è edito in Italia dalle Edizioni nottetempo). Inazione non significa non fare, ma fare secondo misura, affidandosi anziché imponendosi, e ritraendosi anziché esponendosi. In letteratura, l’eroe o, meglio, il martire dell’inazione è lo scrivano Bartleby, protagonista dell’omonima novella pubblicata da Herman Melville nel 1853, subito dopo l’insuccesso commerciale di Moby-Dick. Dal concitato ponte della baleniera Pequod si passa ai polverosi uffici degli avvocati di Wall-Street, al posto della furibonda volontà di potenza espressa dal capitano Achab subentra l’ostinata mitezza di questo impiegato senza storia, bravissimo nel ricopiare i documenti che gli vengono affidati, ma restio a svolgere qualsiasi altro compito. Non appena gli si chiede di derogare, fosse pure per poco, dalle sue mansioni di copista, il buon Bartleby risponde immancabilmente I would prefer not to: «Avrei preferenza di no», come traduceva Gianni Celati. Per difendere la sua libertà Bartleby è disposto a tutto, perfino a sacrificare la propria vita. In questa esistenza enigmatica ha osservato Giorgio Agamben, si compendia una saggezza antichissima, che assegna alla possibilità un valore assai maggiore di quello abitualmente attribuito alla contingenza. Quella di Bartleby sarà anche una beatitudine fragile, ma la disponibilità all’inazione le conferisce una dignità assoluta, che imparenta l’oscuro lavoratore newyorkese alle grandi figure della letteratura. Don Chisciotte, in primo luogo, il cui sepolcro Miguel de Unamuno sognava di riscattare «dalle mani dei baccellieri, dei preti e dei barbieri, dei duchi e dei canonici che se ne sono impossessati» invitando a riconoscere nella coraggiosa docilità del Cavaliere dalla Triste Figura la sola forza capace di «resuscitare Dio e salvarci dal nulla». Ammiratore di Don Chisciotte e contemporaneo di Bartleby è il principe Myškin, il protagonista dell’Idiota di Fëdor Dostoevskij (1869). All’analisi teologica della sua figura è dedicato un saggio raccomandato a chi voglia approfondire l’influenza esercitata dal Discorso della Montagna in ambito letterario. Nelle pagine di Beati gli idioti (Pazzini) il critico Daniele Castellari ripercorre la trama del romanzo andando alla ricerca dei riferimenti, più o meno espliciti, alle Beatitudini evangeliche. Tutte presenti all’appello, dalla povertà di spirito che fa del principe un emulo dei “folli in Cristo” cari alla trazione ortodossa, fìno all’opera di pacificazione ostinatamente perseguita anche nelle condizioni più ostili. Myškin ama la misericordia più di ogni altra cosa ed è per radicale compassione che sarebbe disposto a sposare la dissoluta Nastas’ja rinunciando così all’affetto della nobile Aglaja. Per il tramite del suo personaggio, però, Dostoevskij finisce per aggiungere una beatitudine ulteriore all’elenco conosciuto: è la beatitudine specifica degli idioti, appunto, nella quale si manifesta in maniera definitiva l’ambivalenza salvifica di “un presente da vivere e un futuro da attendere” su cui poggia l’intero edificio del Discorso della Montagna. In una direzione simile, anche se in apparenza meno connotata sotto il profilo religioso, si è spinto il poeta Pierluigi Cappello (1967-2017), che in uno dei suoi testi più celebri ha rivisitato in modo inatteso l’elenco delle Beatitudini. Parole povere è una lunga ballata composta di ritratti minimi, ispirati alle fatiche della quotidianità: («Uno in piedi, conta gli spiccioli sul palmo / l’altro merce il portafoglio nero / nella tasca di dietro dei pantaloni da lavoro.// Una sarchia la terra magra di un orto in salita / la vestaglia a fìori tenui / la sottoveste che si vede quando si piega»). Ma è il finale a imprimere un’intonazione differente, che ha l’evidenza di una rivelazione:
Uno mi dice a questo punto bisogna mettere
la parola amen
perché questa sarebbe una preghiera, come l’hai fatta tu.
E io dico che mi piace la parola amen
perché sa di preghiera e di pioggia dentro la terra
e di pietà dentro il silenzio
ma io non la metterei la parola amen
perché non ho nessuna pietà di voi
perché ho soltanto i miei occhi nei vostri
e l’allegria dei vinti e una tristezza grande.
Cappello si ferma sulla soglia di una beatitudine negata, ma non c’è dubbio che la sua poesia rappresenti già una forma di riscatto per questi uomini e per queste donne. Pronunciate con questa consapevolezza, le Parole povere non sono più povere parole, perché a redimerle ha provveduto l’energia rivoluzionaria dell’annuncio evangelico. La logica delle Beatitudini, del resto, è la stessa del Magnificat: rovescia i potenti, innalza gli umili. E riconosce il primato di chi, come i bambini, è piccolo e indifeso. Se davvero la beatitudine è dei lattanti, allora la giusta conclusione di questa ricognizione è La notte del cacciatore dello statunitense Davis Grubb ( 1953), attualmente in catalogo da Adelphi con il titolo La morte corre sul fiume, lo stesso assegnato in Italia al film che ne fu tratto nel 1955 (prima e unica regia di un attore leggendario come Charles Laughton). Protagonisti di questa fiaba gotica, tanto oscura quanto innervata di istanze metafisiche, sono proprio due bambini, John e sua sorella Pearl, in fuga da un patrigno malvagio che vuole impossessarsi del tesoro custodito in una bambola di pezza. Di peripezia in peripezia John e Pearl approdano alla casa dell’anziana Rachel, che offre rifugio e protezione ai bambini perduti. Grazie a lei questi moderni Hänsel e Gretel scampano alla furia del persecutore, che viene assicurato alla giustizia. Ed è ancora Rachel a mettere in chiaro la morale della favola in un monologo interiore che ha la limpida sostanza della preghiera: «Che il Signore protegga i bambini! Sono capaci di piangere per un giocattolo rotto ma sopportano col coraggio di un santo martire l’assassinio di una madre e il fatto di non aver mai forse avuto un padre. La morte di un gattino li fa schizzare piangenti in grembo alla prima donna nelle vicinanze ma quando viene il momento in cui non sono più graditi in una casa raccolgono le loro cose in una scatola di cartone legata con lo spago e se ne vanno in cerca di un’altra strada, di un’altra casa, di un’altra porta. Che il Signore protegga i bambini! I bambini resistono. Il vento soffia e la pioggia è gelida. Tuttavia i bambini resistono». L’eco potrà suonare lontana, ma rimane inconfondibile: che i bambini siano benedetti, perché i bambini sono i veri beati.